SINE FRONTERA, TRA MIGRANTI E FOLK

S’intitola “Restiamo umani” l’album di recente pubblicazione dei Sine Frontera e che l’obiettivo sia quello auspicato dal titolo lo si rileva sin dal primo brano, quello che dà il titolo all’intero progetto. Un buon testo, musicalmente nulla di straordinario, quasi a voler celare le potenzialità di questa band che attinge a piene mani dal folk padano per poi contaminarlo con altri suoni del mondo, strizzando spesso l’occhio al sound balcanico. La seconda delle undici tracce del cd s’intitola “Mar dei migranti”, oltre che crescere musicalmente, va immediatamente a cogliere uno degli argomenti che scandiscono ogni giorno le nostre esistenze, narrando una vicenda di speranza e di paura che accomuna la gente dei barconi che insegue un sogno.

Ed anche “Nubi nere” ci ricorda la quotidianità dei conflitti che affliggono il mondo, con un percorso musicale gradevole ed un testo che non sfugge per il suo equilibrio narrativo. Purtroppo l’inciampo arriva con “Picchi in testa” e dicendolo mi assumo la responsabilità di farmi dare del “leghista”, ma la mia convinzione che la musica sia un qualcosa che dovrebbe andare al di là ed al di sopra della dimensione politica, è nota a chi mi conosce da anni. Non importa se il testo di quel brano sia pro o contro lo schieramento politico della Lega. Importa però che assume contorni propagandistici e questo non va bene perchè “piega” la musica ad un fine che esula dalla dimensione artistica. Andiamo oltre e ci imbattiamo invece in una bella ballata che ci piace immaginare interpretata in quelle grandi aie di un tempo. E’ la storia di “Pino l’orb” (scritta da Mendes Vecchi), cantata nel dialetto diffuso nella pianura padana. Un povero cieco che si aggira con la sua fisarmonica a cantar qua e là per le vie, lungo una strada, quella della vita, che per lui è sempre in salita. Brano bello e incalzante. Come invece è dolce e lieve, come la malinconia, il brano che segue, “La musica del vento” che affida le sue emozioni soprattutto alla voce chiara e piena di Antonio Resta (che è anche l’autore di tutti i testi, eccetto due). “La fòla dal Babau”, anche questa in dialetto, pone gli accenti più di altri brani sull’anima folk del gruppo; è un’allegoria per adulti e bambini che sottintende quanto possa essere invadente e non sempre motivata la paura di ciò che non conosciamo. Impianto folk di ottima levatura anche ne “Il Barbanera” (brano di Alessandro Bernini) che rispolvera la figura truce e roboante di Edward Teach, il famoso pirata che tra la fine del ‘600 ed i primi anni del ‘700 fu l’incontrastato dominatore del Mar dei Caraibi. E’ poi la volta di un brano strumentale che in modo più diretto richiama anche nel titolo (“Balkan”) un modo di pensare alla musica vicino a quello dei Sine Frontera (brano per altro ottimamente eseguito) per poi lasciare spazio a “Circus”, una canzone che in due minuti e sette secondi riesce a fare vivere tutto l’universo del circo, il suo mondo magico che entra ed esce dalle nostre vite nello spazio di uno spettacolo sotto al tendone. A chiudere, una bella canzone intrisa di romanticismo, “Le favole e le nuvole”, brano forse un po’ estraneo all’abituale genere della band, ma eseguito con garbo ed incorniciato dall’ottimo violino di Simone Angiuli. E’, questo “Restiamo uomini” (che si ispira ad un giovane reporter pacifista, Vittorio Arrigoni, rimasto ucciso nel 2011 nella striscia di Gaza, il quale era solito chiudere i suoi articoli con la frase “Restiamo umani”), che anche chi non è appassionato del genere non può non rimanere ad ascoltare sino in fondo, un buon lavoro, che lascia intuire quanto possa essere avvolgente e travolgente la dimensione live di alcuni brani proposti tra queste undici tracce.

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