“NESSUNO SE NE ACCORGE”, NUOVO ALBUM DE LA TESSITORIA ECO

Ascoltando l’album de La Tessitoria Eco, intitolato “Nessuno se ne accorge”, molti pensieri si rincorrono, canzone dopo canzone, ma quello più ricorrente mi riporta al tempo in cui il cantante era “accompagnato” da uno strumento, da una band (che all’epoca si chiamava complesso, ma poco cambia) o addirittura da un’orchestra, ma pur sempre “accompagmato”. Qui invece la voce di Alessandro Barbaro deve farsi largo a gomitate (e spesso non basta) in un frastuono di chitarre che pare facciano a gara a chi suona più forte.

Dunque, il genere della band bolognese che fece il suo esordio discografico nel 2018 con l’album “Ecos” e che ora è alla seconda produzione impegnativa dopo alcuni singoli, è il rock. Ma nelle dieci tracce che scandiscono il percorso del cd, almeno nella maggior parte dei brani, ha preso il sopravvento solo una parte del rock, quella forsennata, quella degli strumenti a palla, quella per intenderci che induce a pensare che dietro a tanto chiasso di sostanza non ve ne sia molta. Fortunatamente vi sono tre brani, forse quattro, che aiutano a fare capire che invece qui di sostanza ve ne sarebbe e neppure poca, se venisse veicolata diversamente, se sapesse pensare al rock come ad una dimensione diversa dallo “sfogatoio” musicale che  è troppo spesso diventato. I Pink Floyd facevano rock, i Dire Strates anche, gli Uriah Heep pure ed anche i Led Zeppelin, i R.E.M. e l’elenco potrebbe allungarsi di molto volendo assumere quale riferimento i gruppi che sono diventati i classici del rock, cioè i “padri” del rock contemporaneo. Ma la loro musica raramente era un delirio di note e la voce dei loro cantanti era ben definibile. Qui ci troviamo al cospetto di due cover ben eseguite (“Anna e Marco” di Lucio Dalla e “7 e 40” di Lucio Battisti più in versione PFM), di un brano intitolato “Stagioni” che chiude il cd finalmente facendoci ascoltare il senso di un testo e forse “Normale”, soprattutto nelle intenzioni. Per il resto, al netto di qualche riferimento agli Stadio ed a Ligabue che traspare in un paio di canzoni, a degli avvii talvolta pomettenti, seguono dimensioni che non “accompagnano” ed ancor meno assecondano la voce del cantante, ma la sommergono e la travolgono. Tanto che come ho già scritto in altre circostanze, viene da domandarsi a che serva scrivere dei testi e cantarli se poi non “arrivano” perchè la musica li sovrasta. Questo non è rock, ma è lo stato confusionale che tanto piace ai “fatti” di birra o d’altro ad un certo punto della serata, quando la musica si trasforma in una colonna sonora rumorosa ed indefinita verso le prime luci dell’alba. Credo che questo gruppo abbia di meglio da dire e dovrebbe farlo ad onta delle mode.

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