IL GOSPEL UN PO’ INCERTO DI BILLERI

“Gospel” è il titolo dl nuovo album di Valerio Billeri, cantautore romano alle prese con nove tracce non sempre del tutto convincenti.

 

 

Il primo brano ha lo stesso titolo dell’intero progetto e gioca un po’ ruffianamente sulle belle note di chitarra e di banjo, che non riescono però a celare del tutto la ripetitività della linea melodica. I due brani successivi, “San Domenico delle serpi” e “La mia morosa la va alla fonte” si rifanno alla tradizione, nel primo caso con un’atmosfera moto evocativo e nel secondo (la canzone fu scritta negli anni Sessanta da Enzo Jannacci e Dario Fo probabilmente rifacendosi ad un canto tradizionale), tratteggiando una sorta di cantilena con qualche passo incerto nel cantato e la forte caratterizzazione del banjo di Damiano Minucci. Ne “Il canto del gallo” invece la voce di Valerio si fa più determinata e decisa, non è brutto il brano nella sua struttura compositiva, che ci ricorda in qualche modo quel revival anni ’60 molto in auge in svariati locali, anche se le percussioni di Emanuele Carradori imprimono al brano tracce di attualità. “Sotto un cielo di rame” è una canzone con una bella linea melodica, un arrangiamento che si fa interessante via via che il brano cresce ed una voce usata questa volta in modo covincente da Billeri, probabilmente è il brano migliore dell’album, anche per il buon testo che lo caratterizza. Si va nel country/blues con “Racconto d’inverno”, discreta la voce, qualche perplessità sul testo anche se l’atmosfera dal punto di vista strumentale, è quella voluta. E si procede con “Verso sud”, bene la voce, bene gli arrangiamenti, ma il brano non decolla e passa senza lasciare traccia. “Le mille e una morte” è una sorta di ballata a tratti molto gucciniana con un testo non sempre convincente (quel “rombava il cannone”, pur se grammaticalmente ineccepibile, è un inciampo ripetuto più e più volte). E si chiude con “Lungo treno nero”, altro blues discretamente eseguito e musicalmente molto interessante con l’ottimo banjo di Emanuele Luzi. In conclusione, quando le ultime note si spengono, si prova un senso di irrisolto, come se questo lavoro, del quale non si può dire troppo male, ma neppure troppo bene, non sia mai davvero decollato; nessuno dei nove brani suscita particolari entusiasmi e il rischio è quello di un’appiattimento verso una mediocrità che esige una prova d’appello.

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