E’ NELL’INEDITO IL FUTURO DELLA MUSICA

Luca Bonaffini

Proseguiamo la nostra indagine “La musica è finita? Il futuro della musica” con l’obiettivo di raccogliere il contributo di artisti, dscografici, autori, promoter, a cadenza trisettimanale sino alla prossima primavera. Tutti gli interventi verranno poi raccolti in un libro he verrà presentato in occasione di un convegno che verrà organizzato in occasione di Biella Festival 2021. Dopo Alessandro Hellmann ad intervenire è Luca Bonaffini, autore e cantautore, già collaboratore di Pierangelo Bertoli nonché promoter. 

Quando ero ragazzino, al principio degli anni Settanta, avevo: mio padre che cantava “Parlami d’amore Mariù”, mia madre che ascoltava Sergio Endrigo, Umberto Bindi e cantava “Alice non lo sa”, mio fratello che suonava coi compagni di scuola “La ballata del Pinelli” e mio zio (il fratello di mia mamma) che collezionava Beatles e Battisti. Ecco. La musica, in casa mia, era quasi un’ossessione. Credo che lo fosse un po’ per tutti, in quel periodo dalla famiglia più modesta della classe media a quella benestante, dato che il dopoguerra aveva “deliberato” il vinile e “destituita” la costosa gommalacca, mettendo in pensione quei fruscianti 78 giri che, da Sinatra a Latilla, avevano retto a ben due guerre mondiali. Prima con le Canzonissime, i Festival di Sanremo, le “Hit Parade” radio-rai-foniche condotte dall incancellabile Lelio Luttazzi, poi con la tempesta di cantautori italiani e internazionali con testi e contesti ideologici e sociali, la prima metà degli anni Settanta aveva sviluppato nella gente comune una nuova cultura musicale: quella della “canzone popular” che, a fianco dell’elitaria musica colta (la classica, la lirica, la sacra…), correva ad una velocità da record olimpionico verso  la quotidianità. Vennero gli anni Ottanta, tecnologici e sempre meno analogici, tra sintetizzatori di suoni, beati sequenziatori seriali, con indimenticabili partiture di ostinati quantizzati su tempi mai lenti, e tra radio libere, sempre meno sciolte, che erano pronte ad addomesticare il mercato insonne delle frequenze selvagge. Lì, comparvero i due primi mostri: il videoclip e il compact disc. Quando ero ragazzino (come scrivevo poco fa…) non c’era molto.  Eravamo tanti, con le nostre orecchie e le nostre voci, finché un bel giorno – invece dell’iPhone superdotato di oggi che ti prepara anche l’anatra all’arancia – arrivava (magari per Natale o per il Compleanno) il Sony Hi-Fi oppure la chitarra.  In quasi tutte le case, come il ventilatore Marelli o la radio Grundig, c’era “lo strumento amico”, posizionato tra il telefono fisso (con il lucchetto messo da papà) e l’odore dell’Ovomaltina col pan biscotto. Non parlo mica dell’Ottocento. Siamo solo a poco meno di cinquant’anni fa. La musica nella mia vita, ma è ormai riconosciuto, in tutta la Storia sociale del Ventesimo Secolo, ha sovvertito ogni genere d’arte pensata, lasciando alla ragione il compito di studiarla, storicizzarla e, in qualche caso, reinventarla.  La parola d’ordine, in quel periodo, era INEDITO. Chi faceva COVER rischiava l’emarginazione.  Il nostro gioco preferito era quella di scoprire le somiglianze tra le canzoni, smontarle e rimontarle a modo nostro, offrendo a loro – in caso di evidente originalità – lo spazio privilegiato della nostra mente.In cento anni ne è stata fatta tanta, talvolta temiamo troppa, di musica. Da fine Ottocento a fine Novecento, il secolo della chitarra elettrica (migliore attrice protagonista) ha consumato note e ritmi in ogni modo e in ogni direzione, accontentando gli spioni, stimolando i critici più feroci e compiacendo le orecchie pigre degli ascoltatori più fragili.  Ogni epoca, ogni era, ha il suo senso e, poiché l’umanità ne vanta almeno cinque di certi, l’ultimo tratto del Secondo Millennio li ha saputi valorizzare tutti quanti nell’arte, da quella popolare a quella colta, fino a quella intermediaria di generi, stili e categorie.Forse diamo oggi la colpa al terzo, gigantesco e implacabile mostro: internet.Forse abbiamo deciso di sacrificare il CD, usandolo come capro espiatorio per non dover buttare tutto nella raccolta indifferenziata del passato remoto. Forse abbiamo vissuto troppo intensamente e i ricordi ci pesano ad un punto tale da affievolire quella parte della memoria attiva che ci ha fatti sentire creativi e innovatori. Forse c’è un sacco di bella musica, ma noi siamo diventati sordi. Una cosa è certa. Di COVER e di VINTAGE non si cresce, ma si invecchia.Credo, e lo penso davvero, che sia necessario ritornare alla fatica del concepimento, al dolore del parto e alla tenacia dell’ascolto. Ritornare insomma alla canzone difficile da scrivere e impossibile da non sentire, perché capace di raccontare l’uomo, le sue stanze emotive, i suoi sentimenti. Credo che il futuro della musica nell’arte sia riposta nell’INEDITO. Solo allora, quando ci saremo stancati di mangiare sul passato come se dovessimo durare in eterno, avremo le orecchie pulite e la testa nuova. Solo allora, la musica tornerà a rappresentarci e avrà il posto che merita di avere. Accanto a noi.

 

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