Ritrovo Pamela Guglielmetti con il suo nuovo album, “Aleph”, e conoscendo l’artista canavesana mi accingo all’ascolto con una certa curiosità perchè Pamela è un personaggio che mi ha sempre colpito per l’intensità del suo mondo interiore e per il forte senso poetico con cui tratteggia le sue emozioni, ma non mi ha mai convinto sino in fondo quando ha cercato di trasformare in canzoni questi suoi stati d’animo. Questo nuovo album, caratterizzato da dodici tracce (anticipo, come faccio spesso in questi casi, che ne sarebbero bastate una decina) esce con la forza e la determinazione di chi è consapevole di avere alzato l’asticella delle proprie prestazioni e quindi anche delle aspettative di chi ascolta.
Ma veniamo alle canzoni, iniziando con “Lascio che sia”, una canzone molto teatrale, come lo sono spesso le canzoni di questa cantautrice, una sorta di recitazione cantata su di un tappeto musicale soffuso che rivela però subito una notevole ricercatezza testuale. “Alisha” è una canzone molto bella con la quale Pamela rivela anche un notevole miglioramente nel canto; molto buona la linea melodica e davvero notevoli gli arrangiamenti; forse è il più bel brano dell’album. Purtroppo qualche passo indietro lo si avverte in “Un sogno per Cloe”, un brano dalla linea melodica un po’ incerta e che, soprattutto, non riesce a decollare. “Un uomo di carta” è una canzone, ma potrebbe essere anche una poesia semplicemente recitata, ha comunque un bel testo ed una certa originalità. Si prosegue con “Terra di vento”, un brano complessivamente piacevole, ma poco incidente nell’economia complessiva del progetto. “Eternità” è un buon pezzo che coniuga in modo convincente testo, linea melodica e dimensione musicale, non fa sobbalzare, ma funziona. Anche “La legge del tempo” è un buon ascolto, uno dei brani migliori interpretato con eleganza. In “Dio degli ultimi” ravviso uno dei difetti ricorrenti di Pamela: la scarsa armonia nella scelta delle parole nel senso che, se lette, riescono a suscitare emozioni e ad evocare immagini definite, trasformate in canto risultano un po’ spigolose e, appunto, poco armoniose. “La quarta casa” è una canzone più dinamica con la quale la cantautrice immagino abbia voluto dare una piccola scossa alla sua abituale dimensione interpretativa, ma il pezzo non è nelle sue corde ed alla fine risulta anche un tantino tedioso. “Rinascere d’inverno” torna alle atmosfere pecedenti, un brano intenso, cantato e recitato, ben arrangiato e che “arriva”. Un po’ meno convincente “Stella del nord” che non trova mai il tratto finale, quello che chiude e che segna graffiando o accarezzando l’anima. E si va a chiudere con “Non andare via”, una cover, il capolavoro di Jacques Brel in francese intitolato “Ne me quitte pas”, in Italia sontuosamente interpretato dalla divina Patty Pravo; un grande coraggio quello di Pamela nel voler cimentarsi con questa canzone, ma la sua versione è eccellente confermando ancora una volta quale sia il genere a lei più congeniale e ricordadomi che Pamela Guglielmetti non va solo ascoltata, ma soprattutto va vista per la sua intensità interpretativa che in dimensione live può fare dimenticare anche alcune sue imperfezioni. Sicuramente un buon album per chi ama la canzone d’autore.