Fabio Rovazzi si presenta in ritardo ad un concerno, canta quattro (quattro!) canzoni e se ne va (tempo cronometrato, 18 minuti). Salta “per motivi tecnici” il concerto di Elodie. Dei vincitori dei talent non parla più nessuno, ma c’è anche una nuova moda delirante; quella che fa gridare al sold-out, quando tutte le tazze di un cesso pubblico sono occupate. Il tentativo di rilanciare Giusy Ferreri è miseramente fallito, i dischi continuano a rimanere invenduti, le piazze si riempiono solo quando sono inondate dalla non musica e le nuove generazioni ciondolano con la bottiglia di birra in mano, molte radio continuano a passare le canzoni di Malika Ayane e Nina Zilli, due di quei rari talenti emersi in questi ultimi anni, ma pochi se ne accorgono. E’ il desolante paesaggio della musica italiana di questi anni, mentre promoter sempre più alle prese con ristrettezze economiche ormai drammatiche, si ostinano ad organizzare eventi nei quali si esibiscono perfetti sconosciuti millantati per band di grande successo quando, nei casi migliori, si tratta di ragazzi dal claudicante presente e dall’incerto futuro, che hanno suonato una volta al concertone del 1° Maggio a Roma. Si cercano i personaggi, ma non c’è più il tempo per crearli, né la capacità, né la voglia. Se si investe su di un cantante deve rendere a cominciare dal giorno dopo (ed i talent ne sono un esempio) e quando il soggetto è ben spremuto lo si butta e se ne cerca un altro. Un Rovazzi che fa date con quattro brani in repertorio è uno scandalo senza precedenti, ma è soprattutto la dimostrazione di quanto non ci sia più il tempo per costruire qualcosa intorno ad un cantante, sul quale occorre speculare per arraffare quei pochi e maledetti ma, soprattutto, occorre farlo subito. E se non si creano i personaggi non si genera il divismo, controversa forma di notorietà portata alle conseguenze estreme che in passato faceva si che i dischi si vendessero a prescindere. Non importava se la canzone era bella o brutta, importava chi la cantava e la gente si accalcava fuori dagli alberghi per aspettare Gianni Morandi e Patty Pravo, ma anche Toni Astarita e Fiammetta che proprio fenomenali non erano. Giusto o sbagliato che fosse, quelli erano gli anni del boom della canzone e le hit parade traboccavano di dischi che assai frequentemente raggiungevano le 100mila copie vendute (oggi ne bastano 25mila per far suonare le campane del disco d’oro. E ci arrivano in pochi). C’erano discografici che sapevano cavalcare quei momenti e che si occupavano da sempre e per sempre di musica. Non manager che alla discografia ci arrivano dopo essere stati a capo di società che fanno tutt’altro e che sono convinti che vendere la musica sia come vendere scarpe o elettrodomestici. Manager persuasi che quel conta è solo il fatturato e che l’arte e l’artista sono optional. E poi, certo, è cambiato anche il pubblico. In passato l’operaio e l’impiegato erano lavoratori che conducevano onestamente le loro esistenze, ma il cantante era un personaggio, era qualcuno che aveva saputo dare una chiave di lettura diversa della propria vita. Un mix di talento e fortuna. Uno su cui pareva fosse perennemente acceso un riflettore. Oggi, anche con l’avvento di internet, tutti sono cantanti, musicisti, scrittori, giornalisti. Tutti sanno tutto e tutti sono alla portata di tutti. Non si è mai vista in Italia una produzione musicale come in questi anni. Eppure, nel mondo della musica e dell’arte in genere, non si ricorda una depressione come quella di questi anni. Il che dimostra che evidentemente non tutti sono così bravi. Ma rivela anche che quelli bravi rischiano di essere soffocati dalla mediocrità, dalla pochezza e dalla supponenza di coloro che sarebbe meglio tornassero a fare gli operai e gli impiegati.
Giorgio Pezzana