MEI? ANCHE NO!

Il “patron” del Mei, Giordano Sangiorgi, nei giorni scorsi, in vista dell’apertura della 20a edizione del Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza, dopo avere evidenziato che la musica “indie” è in ginocchio, ha annunciato che quella di quest’anno sarà l’ultima edizione della rassegna dedicata alla musica indipendente. «Tale scelta» ha detto Sangiorgi intervistato da Ondarock «arriva perché riteniamo di aver fatto il nostro dovere in questo arco di tempo ma, dopo aver compiuto diverse operazioni che hanno portato ampio giovamento al settore, attualmente dobbiamo fare i conti con altri meccanismi che si sono messi in moto sostituendoci in parte». Poco più avanti l’intervistato, lascia però trasparire l’ipotesi che si, il Mei potrebbe finire, ma per trasformarsi in altra cosa. Di più non si sa. In tempi recenti, piuttosto ruvidamente, IndieZone, aveva scritto “…il Mei è la fabbrica del nulla, dove chi non ha niente tra le mani cerca di regalartelo e, a volte, anche di vendertelo…”. E’ esattamente l’impressione che ho avuto, in più circostanze, accostandomi in modo diverso a questa manifestazione. Un gran contenitore apparentemente di tutto (e spiegherò anche perchè “apparentemente”), un frullatore enorme di stand, musica, libri, strumenti musicali, rumori indistinti sui quali Sangiorgi ha costruito per vent’anni un business che gli ha conferito una certa autorevolezza nel settore, ma che non ha dato molto altro e molto di più a coloro che al Mei, per un certo periodo, hanno guardato come ad una sorta di Mecca ove recarsi in devoto pellegrinaggio annuale. La sensazione è sempre stata quella di un accaparramento disordinato e frenetico di tutto ciò che in qualche modo avesse a che fare con la musica indipendente nel nostro Paese, quasi alla ricerca di un improbabile monopolio. Celato abilmente da un assemblearismo ostentato, ma in realtà poco partecipato, anche perchè, seppur con varie sfumature, costantemente solcato da un’appartenenza politica unilaterale, che spiega l’”apparentemente” di cui sopra dicevo. Un contenitore “apparentemente” di tutto, ma in realtà coordinato e rappresentato dalla sinistra più piazzaiola e intransigente, che butta in quel rumoroso frullatore tante foto del Che, tante bandiere rosse ed arriva a caldeggiare, come accaduto pochissimi anni or sono, la nomina di Giovanna Marini senatrice a vita attraverso il sito della manifestazione, dando quindi alla rassegna stessa una colorazione distinta ed inequivocabile. Nulla di male, beninteso. Le idee, in un Paese democratico, hanno diritto di libera circolazione. Ma quando un’iniziativa dedicata alla musica assume tinte politiche forti, sino al punto di voler far credere che quella musica e quelle tinte siano un tutt’uno, allora significa avere avviato un percorso di strumentalizzazione inaccettabile. Perchè, delle due l’una: o il Mei ha cercato di riunire intorno a sé, usandoli, tanti musicisti per poter poi rivendicare che il mondo indie sta solo e soltanto da una parte, oppure, ad essere usata, è stata la bandiera di un credo politico, per cercare di ottenere da quel fronte benefici e riconoscenza. In entrambi i casi si tratte di manovre che con la musica, indipendente o meno, poco o nulla hanno da spartire. Per questo il Mei non mi è mai piaciuto. E, poco alla volta, scopro che non piace neppure a molti di coloro che lo frequentano con la speranza di ricavarci qualcosa di utile.

Giorgio Pezzana

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