“DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO”, DEBUT ALBUM INCERTO DI SANCHEZ

E’ da poco in circuitazione “Dall’altra parte del mondo”, l’album d’esordio di Gregorio Sanchez, bolognese che studia, si diverte e lavora tra Austria ed Italia ove solo in un secondo tempo scopre il patrimonio musicale e catautorale del nostro Paese. Ha alle spalle qualche singolo e qualche palcoscenico prestigioso ed approda a queste dieci tracce, che dovrebbero rappresentare una sorta di consacrazione. In realtà, pur trattandosi di un lavoro nell’insieme gradevole, non pare cogliere i segni di quella maturità artistica che ci si aspetterebbe da chi affronta l’esperienza di un album tutto suo.

S’inizia con “Dopo Marte”, voce e chitarra che rivelano però immediatamente un minimslismo d’insieme che ritroveremo con insistenza anche nei brani successivi. “Pesce lesso” rivela una linea melodica meno felice del brano precedente, confermando gli stessi limiti, tanto da rivelarsi un po’ noiosetto. “Dall’altra parte del mondo” è il brano che dà il titolo all’intero progetto e che pone i paletti per una prima riflessione: Gregorio Sanchez canta benino, si potrebbe dire che nella maggior parte dei suoi brani canticchia più che cantare ed in questo ricorda vagamente il Fabio Concato prima maniera; musicalmente, almeno sino a quel punto, i suoi pezzi sono poverini, ma può essere una scelta o un caso. Andiamo oltre. “Bosco verticale” acquista una buona dose di dinamismo, almeno musicalmente, ma poi va a scontrarsi con un arrangiamento a dir poco improbabile. Scorrono quindi “San Giuliano” e “Macchine volanti” (in questo caso un segno più per il testo), senza pecche particolari, ma allo stesso modo senza suascitare entusiasmi ed alla fine sarà proprio questo il limite dell’intero lavoro. “Indiani” ha un buon giro di accordi e “Vulcani” tenta un arrangiamento un po’ meno consueto per arrivare quindi alla fine dell’album ascoltando “Senno di poi” e “Orsi mondiali” che finalmente, almeno nel testo, ma anche musicalmente, pare uscire un poco dal clichè di questo album. Un progetto che, come dicevo poco sopra, non può definirsi un cattivo lavoro, ma ciò che manca è quella marcia in più che riesca a sorprendere, quella trovata, quel lampo che inducano l’ascoltatore a sentire il desiderio di riascoltare un brano, un passaggio, una frase. Il rischio è che il lavoro scivoli semplicemente via senza sussulti, prigioniero di schemi che si somigliano in ogni canzone e che, alla fine, possono risultare scontati.

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