Con The Wonkies una colazione…all’inglese

Quando ancora esistevano i negozi di dischi si entrava e ci si dirigeva verso uno scaffale con l’indicazione del genere di cui si ricercava qualche chicca, fidandosi del fatto che qualcuno avesse catalogato per noi quella musica. Quella catalogazione avrebbe poi influenzato in modo più o meno inconscio il nostro ascolto. Chi decideva dell’appartenenza a questo o quel genere era il negoziante, che spesso era un vero e proprio guru.I The Wonkies, con il loro modo di proporsi, si scelgono autonomamente il proprio posto sullo scaffale, cercando di togliere a chi avvicina alla loro musica il gusto di rispondere all’indovinello “questi a chi si ispirano?” o “a chi assomigliano?”, perché ogni loro particolare è studiato per far parte di un genere.

Il nome, le cravatte, le scarpe, quello che dicono di loro stessi. Come se essere riconosciuti come dandy brit nu-vintage rock fosse fondamentale. Probabilmente, in un mercato e in un mondo che cerca di etichettare e catalogare tutto, mettere dei tag per poter essere correttamente inseriti nella libreria di iTunes è un’ansia legittima. Ciononostante nei The Wonkies c’è molto di più. La loro musica è stratificata. Che ne siano consapevoli o meno, nei loro brani si riconoscono i cromosomi del rock, che prescindono da generi ed etichette. Le melodie sono facili, orecchiabili; non sempre originalissime, ma molto furbe, adatte a entrarti in testa e rimanerci per ore. E questo potrebbe essere sufficiente agli appassionati di brit rock Beatles-like. Grattando la superficie della loro musica però si riconoscono Led Zeppelin, Jimi Hendrix,  Cream, Yearbirds, the Who. Come un vino strutturato. Se lo bevi in fretta sa semplicemente di vino rosso: buono, appagante, liberatorio . Se però lo assapori attentamente inizi a sentire sapori differenti, che magari hanno poco a che fare strettamente con il vino, ma hanno molto a che vedere con l’ambiente, le storie, la vita del posto in cui quel vino è stato prodotto. La loro musica parla di loro, delle loro vite, dei loro gusti musicali, dell’ambiente in cui sono cresciuti, delle storie che hanno sentito, della cultura che si sono fatti. Il sound delle chitarre è ricco e autentico. Il basso è deciso e maturo, il drumming semplice ed essenziale, l’hammond, quando c’è,  è un tocco di classe superiore. L’impressione è che questi ragazzi, per questo disco, abbiano dato il meglio per potersi “accreditare” al grande pubblico, ma che abbiano tenuto in serbo per il futuro le armi migliori, quelle che potranno essere riconosciute con la maturità, che loro già faticano a trattenere. Si ha la sensazione, comune a molte band alle prese con il primo disco, che questo rappresenti una sorta di “greatest hits “ della prima parte della carriera. Un greatest hits con degli inediti. Ci sono canzoni che tradiscono qualche anno di rodaggio e altre che indicano chiaramente la strada che la band intraprenderà verso la maturità, figlie di una composizione più recente e meno “naive”. La maturità di questa band ci riserverà delle emozioni, delle sorprese, perché nel loro DNA c’è molto, moltissimo che non può rimanere imbrigliato in uno schema di genere.  Staremo a vedere. Molto promettenti.

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